... diciannove aprile ore undici, momento più, meno. Il telefono squilla, sul display un numero sconosciuto, rispondo, la voce si presenta, è un nome del giornalismo di testata nazionale. Con voce gradevole mi chiede se sia possibile ch'io rilasci un'intervista sull'attuale situazione afghana, il cambiamento in atto, il ritiro delle truppe Nato. Sorrido, lui non lo sa ma io sorrido. Dice che andrebbe registrata domani intorno alle 16,30 se per me va bene. Sento che ha dato per scontato il mio consenso. Sorrido ancora. Chiedo se sarà riportata integralmente. Assicura di sì. Mi aspettavo una richiesta di questo tipo, dico, aggiungo: va bene. Ringrazia. Ricambio. Ci salutiamo. A domani, dice. A domani, dico.
Dopo il click resto alla scrivania, mi accoccolo sui cuscini della poltrona come in un grembo. La mente prende un tragitto a ritroso, prende a riportare le volte in cui ho speso parole per l'Afghanistan, decine e decine di volte, migliaia e migliaia di parole. E' strano come la mente, spesso immemore, riesca a sciorinare immagini e suoni quando è il cuore a parlare.
Intanto i luoghi nella mente si avvicendano lungo la nostra penisola, da sud a nord, sono molti, con essi ritorna anche qualche suono di parola: conferenze, convegni, incontri pubblici, privati, ufficiali, non. Poi s'affacciano i libri: storia, narrativa, anche in lingua inglese, quelli tradotti, anche quello in via di traduzione in lingua turca. Tornano alla mente le immagini della mostra fotografica, che volli itinerante in Italia, con gli scatti di Barat Alì Batoor. E tornano decine e decine di articoli, credo superino le due centinaia, non so con esattezza, non li ho mai contati, la lista è lunga, troppo. Di una cosa sono certa, tutto, sempre tutto sull'Afghanistan. Nel corso di venti anni, mentre laggiù imperava dolore e distruzione, le parole, le mie, ma non solo, facevano di tutto per raccontare, specificare, comunicare, correggere quando si poneva il caso, narrare immagini di quella terra afghana che ancora oggi alcuni giornalisti, forse sprovvisti di attenzione, specificano: "Afghanistan, Stato orientale...", come fosse sconosciuto. Parole nel tempo che in alcuni attimi stento persino a riconoscere come mie, parole pronunciate, scritte per far sì che l'occidente potesse incontrare quella terra millenaria e complessa nella sua articolata storia, dalle origini ad ora, nell'archeologia, nei suoi vari credo religiosi, le sue etnie, nella sua musica, nelle ricchezze del sottosuolo, in tutta la sua realtà difficile da comprendere in Occidente, proprio perché estremamente sfaccettata, e per questo facilmente travisabile, strumentalizzabile se non la si conosce fino in fondo, se ci si muove per sentito dire o per ciò che interessi vari selezionano sì che si mostri o si taccia.
Raccontare a dispetto d'ogni cronaca anche per quel suo essere stata millenni or sono, con la Mesopotamia, proiezione verso il futuro della Civiltà, una delle radici. Cosa incredibile oggi per chi non abbia studiato tutta la complessità di quella terra a cui nel 1747 si diede confine e nome Afghanistan facendolo divenire Regno a sé. Sì, sono un'infinità le parole spese per l'Afghanistan in questi venti anni, volendo prescindere da precedenti studi e ricerche, partendo solo da quella domenica del 7 ottobre 2001.
Ed ora mi si chiede di parlare in merito a quel che sta accadendo, che non sarebbe dovuto mai accadere, perché quel 7 ottobre del 2001, non avrebbe dovuto mai vedere bombardamenti radere al suolo città e città di quella terra, per un inganno, una menzogna. Perché da una menzogna ben programmata ma non ben congeniata, non ben gestita in una fallace sorpresa, da quel Ground Zero, quel foro newyorkese dell'11 settembre del 2001 con il crollo per implosione delle Twin Towers, anzi, per la precisione, dal 9 settembre 2001, giorno dell'assassinio di Ahmad Shah Massoud, capo carismatico dell'Afghanistan, ucciso nell'attentato attuato, si disse, da giornalisti forse marocchini, da servizi segreti occidentali, anche si disse. Da quel momento, da quell'esplosione, sarebbe partita la distruzione dell'Afghanistan. Lungo venti anni di guerra, torture, soprusi, violenze d'ogni tipo, estremo impoverimento del paese, totale indebolimento della gioventù, dei bambini, quelli che alcune nostre Onlus dicevano di proteggere, finiti come cavie farmaceutiche occidentali, spesso, molto spesso, troppo, o nel circuito dell'eroina, offerta loro, gratuita, per farli finire sotto i ponti di Kabul. In base all'età. Così si annienta la possibilità di futuro. Molti troppi, come i campi di papaveri d'oppio spontanei, fatti moltiplicare e moltiplicare perché la nostra richiesta fosse soddisfatta, perché fosse sempre più proficuo il traffico in occidente.
Il futuro afghano sotto i ponti di Kabul per un inganno, una conclamata menzogna a cui ancora oggi ci si riferisce, si nomina come fosse verità la dichiarazione ufficiale, verità persino a dispetto di leggi ingegneristiche, a dispetto di scatti fotografici, di chiara denuncia del falso. Fatta da molti tecnici del settore.
Ed ora ancora si chiede di parlare! E lo si chiede riportando la dichiarazione del neopresidente americano e la sua menzione dell'11 di settembre quale data finale del ritiro delle truppe Nato. Si chiede di parlare ancora, lo si è fatto per venti anni, in molti, si è detto tutto quel che c'era da dire e molto di più. Non è valso a nulla. Ora di cosa si dovrebbe parlare del fallimento d'occidente? Del nuovo Vietnam americano? Per dignità mi fermo qui.
Sì, questo, e tanto altro, mi ha riportato la mente stamattina. Quando le immagini si sono chiuse, le voci zittite, ho lasciato il grembo della poltrona, preso il telefono, cercato il numero, ancora impresso, della precedente telefonata, schiacciato il pulsante verde, la voce ha risposto al primo squillo: Pronto, ho detto, sono Marika Guerrini, ho ripensato la proposta, La ringrazio, ma non rilascio alcuna intervista. Spiacente, ancora grazie. Buongiorno!
Ho parlato di getto, non ho lasciato neppure un attimo ad un'eventuale replica. Ho chiuso la comunicazione. Se dicessi che non mi sia dispiaciuto averlo fatto, mentirei, mi è dispiaciuto aver accettato e poi rifiutato, avrei dovuto rifiutare subito, alla richiesta, sarebbe stato più elegante, ma non è andata così, il pensiero è andato all'Afghanistan, subito, alla richiesta, la mente per qualche attimo era stata immemore dei fatti, delle menzogne, del non detto, delle mie stesse parole, di quelle veritiere degli altri. Per qualche istante ho avvertito l'impulso di voler parlare di quella terra, ancora e ancora. Poi la mente s'è fatta memore. A ritroso. Completa. E il desiderio di silenzio s'è fatto avanti. Forte, molto forte. Rispetto all'Afghanistan, alla sua verità, alle mie parole orali, scritte, in pagine e pagine e pagine. Rispetto alle parole altrui, di verità anch'esse.
Sì, è andata così, stamattina.
Ed ora due brevi stralci in chiusura di quest'ulteriore pagina, questa di getto,
ecco il primo:
"... c'è un'antica leggenda, così tanto antica da far incontrare nel contenuto due mondi geograficamente lontani, se pur uniti nella storia che fu, il mondo dei nativi americani e delle genti che vivevano in terra poi afghana millenni or sono... dice così: soffierò nel cavo della canna per ricordare al passero della neve quello che è stato, e che forse sarà ancora, se Dio vorrà." (1)
ecco il secondo:
" ... c'è tanta polvere ora dove c'era una volta l'Afghanistan... C'è tanta polvere ovunque.
Torneranno a zampillare le fontane? I cavalli selvaggi torneranno al galoppo? Ancora risplenderà il verde degli smeraldi? Tornerà a fiorire il tappeto erboso del tulipano? Tornerà la primavera o non sarà solo sogno?
Indiscussa certezza di Dio... Tornerà.".(2)
Marika Guerrini
immagine: scatto di Barat Alì Batoor- collezione privata
(1) Marika Guerrini- Afghanistan Passato e Presente- Storia- ed. Jouvence 2014
(2) Marika Guerrini- Massoud l'Afghano-il tulipano dell'Hindu Kush- ed. Venexia 2004
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