martedì 28 gennaio 2014

una bambina speciale tra ebraismo e cristianità

... certe storie non si raccontano, ancor più se sono state esperienze dell'anima. Abitano l'intimo, perciò non si raccontano, sono storie sottili. Poi capita che passano anni, che ti trovi ad ascoltare cose che ti riportano a quella data storia, quella e non altre, una storia semplice che ai più potrebbe non interessare, che a te ha aperto uno spiraglio di mondo e, se questo coincide con fatti, con cronaca o anche solo con affermazioni che vengono dalla contingenza  a cui quella storia risponde, allora, ti trovi a raccontare, a raccontarla.
 Era il settembre del 1988, forse, e Sarah aveva sei anni, questo è certo. La vedevo per la prima volta, lì, davanti alla mia scrivania, piccina quasi a non sfiorare il ripiano, cicciottella quel che bastava a darle un'aria gioiosa, lì con la sua mamma accanto. Signora direttrice, sono venuta per iscrivere mia figlia, ma voglio prima parlare con lei.  Prego, fu la risposta animata dal gesto della mano che le invitava ad accomodarsi sulle poltroncine oltre la scrivania. Intanto Sarah era già sparita coperta dal mobile e dai libri accatastati. Siamo ebree, fu il continuo all'esordio, poi, dopo qualche frazione di silenzio come d'attesa a scrutare: ma non voglio iscrivere Sarah alla scuola ebraica, non voglio che cresca sentendosi diversa, non voglio che sia educata alla paura e all'avversione. Cosa intende signora..?scusi ma non ho capito il suo nome, dissi. Scusi lei, non mi sono presentata, mi chiamo D... E pronuncia il cognome. Io sorrido, ci diamo la mano. Ripeto la domanda: Cosa intende con educata alla paura e all'avversione? Lei direttrice non lo sa, ma nella nostra scuola ogni giorno i bambini entrano da una porta ed escono da un'altra, ci sono più ingressi che danno sulla strada, dice e: le porte sono sempre decise all'ultimo momento e sui terrazzi  del tetto ci sono, a turno, spesso sono padri dei bambini, uomini di guardia e sono armati. Io ascolto mentre Sarah sfoglia un libro di fiabe che le ho passato, sfoglia intenta, seria, tutta presa dalle immagini del libro, ma so che sta ascoltando. Finché la domanda diretta: in  questa scuola come si insegna la religione? Non c'è l'insegnamento della Religione, ma di Storia delle Religioni, rispondo e: tutte vengono trattate sia alle Elementari che alle Medie, in ambito storico e tutte rispettate anche nelle ricorrenze. La signora D.... si rilassa, sorride, la conversazione continua a lungo. Tre furono i libri di fiabe che Sarah sfogliò. Il giorno dopo sarebbe stato il suo primo giorno di scuola. Era una bambina sorridente, serena, sempre. A lei seguirono molti altri bambini di religione ebraica, fu un via vai, come una piccola corte. 
Un giorno di quello stesso anno scolastico, si era in primavera, era il momento dell'intervallo di metà mattina, i bambini erano in giardino quando l'insegnante della classe di Sarah, mi si precipita davanti alla scrivania senza neppure bussare alla porta: corri Marika, vieni a sentire Sarah e Elisabetta che parlano di religione. Come di religione?, dico, intanto mi ero alzata per seguirla. Le bambine erano sedute ai piedi dell'albero di melograno, noi ci siamo appostate vicine con indifferenza facendo finta di parlare. Elisabetta: ... ma voi ce l'avete gli angeli? Sarah: sì ce l'abbiamo. Elisabetta: e ce l'hanno le ali? Sarah: sì, ce l'hanno come i vostri. Elisabetta: aah... meno male!  Sarah: però c'è una cosa che non abbiamo. Elisabetta: cosa? Sarah: la madonnina, la madonnina non ce l'abbiamo. Elisabetta: e ti dispiace? Sarah: sì mi dispiace. Elisabetta: sei sicura che non ce l'avete? Sarah: sì, sono sicura. Elisabetta: e ti dispiace tanto? Sarah: sì, tanto. Ci siamo allontanate quasi vergognandoci di quelle confessioni rubate a due mondi che s'univano. 
Trascorrono tre anni. Nel frattempo si crea un'amicizia di stima tra me e la madre di Sarah. Vengo invitata ad una cerimonia in Sinagoga, mi viene detto che è un'eccezione, sono ancora grata di questo. Comprendo molti passaggi, è un'esperienza interessante, molto. Intanto la terza elementare di Sarah, una mattina, una lezione di storia. L'insegnante di classe, in difficoltà sull'impostazione della lezione che s'è fatta delicata, chiede il mio aiuto.  Stanno trattando di Roma e della Palestina al tempo di Gesù di Nazareth. Racconto di quel tempo, del ruolo di Roma, della Palestina, delle figure storiche di entrambi tra cui la figura del Gesù storico. La sua nascita ebraica si deduce facilmente, i bambini sono svegli, allenati a pensare e molto preparati. Siamo vicini alla Pasqua. Sarah alza la mano, chiede la parola, le viene data, si alza: Gesù non era ebreo! Non lo dice, lo afferma. L'insegnante mi guarda, i bambini tacciono: sì, Sarah, Gesù era di religione ebraica, dico, le sorrido, si capisce che è un brutto colpo per lei. Mi dispiace. No, non era ebreo, era cristiano. Sarah ha quasi le lacrime agli occhi. Non è un momento facile per nessuno, i bambini continuano a tacere, mi avvicino al suo banco: tesoro, il Cristianesimo è venuto poi, allora quando è nato non c'era, è stato dopo di Lui. Sarah mi guarda, abbassa la testa, continua: ma la vostra Pasqua è diversa dalla nostra. E parla di Mosé della cacciata dall'Egitto, della terra promessa, della nuova vita. Le parole: vostra, nostra, hanno fatto male, hanno avuto un suono duro mai sentito dalle sue labbra. No, Sarah, sono la stessa cosa, dico, lo sono solo in maniera diversa, ma entrambi conducono l'uomo verso una nuova vita. Vorrei abbracciarla, non oso, potrei offenderla nella dignità del dolore che sta attraversando, è evidente. E poi c'è il ruolo. Chiede di poter uscire, esce, rientra dopo qualche attimo, intanto i bambini hanno ripreso la conversazione storica, stanno argomentando su Roma. Nessuno commenta nulla né fa domande sull'argomento precedente. 
Sarah non venne a scuola per i tre giorni successivi. Il terzo giorno una telefonata della madre, disperata: cos'è successo, Sarah dice che deve cambiare scuola, deve andare alla scuola ebraica, però piange che non vuole, che è successo? Le racconto dell'episodio, di come s'era svolto, di come la bambina l'aveva vissuto. La madre comprende, comunque non vuole che Sarah cambi scuola, chiede aiuto, ma non posso darglielo, non come vorrebbe, è a Sarah che devo pensare. E' una decisione che va accolta, rispettata ancor più perché sofferta. Va fatto per lei. Sono certa che sia stata una scelta dolorosa e importante, molto più grande della sua età e, coraggiosa, molto. 
Venne a salutare dopo una settimana. Venne in direzione ch'era già stata nella sua classe, aveva salutato i compagni, la sua maestra. Questo titolo di maestra i bambini delle elementari lo davano anche a me, mi si rivolgevano così, quella mattina Sarah mi chiamò signora direttrice, per la prima volta, poi: tu lo sai che sto andando nella scuola della mia gente? Sì, Sarah, lo so, va bene così, sarà bello potrai raccontare tante storie ai tuoi nuovi compagni. Mi abbracciò, ci abbracciamo, e, all'orecchio, solo a bassa voce all'orecchio: maestra Marika posso portare i pennelli e i colori, alla mia scuola non ci sono e anche gli acquerelli che ho fatto? Sì, certo tesoro, certo che puoi. E: posso venire quando c'è il teatro e le mostre? Puoi venire quando vuoi, ogni volta che hai nostalgia Sarah, questa sarà sempre la tua vecchia scuola, ricordalo. Ci fu ancora uno slancio racchiuso in un abbraccio.        
Seppi poi che per oltre un anno aveva segnato le ricorrenze della sua "vecchia" scuola sul calendario, come per ricordare, venire, ma non tornò più. 
Marika Guerrini

domenica 19 gennaio 2014

KABUL

... diciottesimo giorno di questo nuovo anno, due giorni fa. 
La stilo aveva preso a tracciare su un foglio parole per comporre questa pagina, appunti di contenuti da sviluppare poi, digitando sulla tastiera. Parole sull'attentato a Kabul di cui, all'alba, una voce amica, al telefono mi aveva reso partecipe: c'è stato un attentato ieri sera, aveva esordito: qualcuno s'è fatto esplodere nel locale del ristorante libanese, quello a Wazir Akbar Khan, il quartiere residenziale, nella stradina, ricordi? Sì, avevo risposto. 
Poi: s'è fatto esplodere al chek della porta di metallo, due suoi complici sono entrati subito dopo e si sono messi a sparare all'impazzata, poi sono stati uccisi.
La voce aveva continuato indifferente al mio sonno interrotto, alla fatica d'un assurdo risveglio, indifferente alle tre ore e mezza di fuso orario. Aveva continuato col numero delle vittime: 21, col fatto che 13 fossero stranieri, che vi fossero funzionari dell'Onu, che uno di questi fosse un incaricato dell'Unama, la missione Onu a Kabul, Vadim Nazarov, che vi fosse anche Wabel Abdallah, libanese, rappresentante del Fondo monetario. Aveva continuato col ricordare che la zona era sempre sotto stretta sorveglianza proprio per la presenza di ambasciate, abitazioni di diplomatici, uffici. Dopo, la voce era passata al: buon giorno e tu come stai? Stavo meglio prima, quando stavo dormendo, avrei voluto rispondere, invece ho sorriso alla cornetta, a me stessa e: bene, bene... Circa quattro ore più tardi, avevo preso a tradurre in parole su di un foglio la notizia, aggiungendo che l'azione era stata rivendicata dai taliban, ma che questa cosa non ha alcun significato, che il termine taliban altro non è oramai che una sigla, così come al-Qaeda, una sigla di comodo. Ribadendo, per l'ennesima volta che il concetto di taliban ha acquisito da tempo, in Afghanistan, un senso diverso, un diverso significato, per via della sostanza, per il fatto che la maggior parte di quegli uomini sono solo afghani combattenti per la libertà dallo straniero, dall'invasore, dal degrado morale in cui è stato fatto precipitare il Paese. Aggiungendo che è ora di smetterla con la menzogna della guerra al terrorismo, dell'aiuto alla popolazione, della democrazia da esportazione. Ricordando che i combattenti islamici jihadisti legati ad al-Qaeda sono frutto dell'intelligence occidentale, formati negli ultimi tempi della Guerra Fredda, sguinzagliati poi in tutta la regione, rafforzati in seguito all'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq eccetera eccetera, continuando con  cose dette e ridette. Avevo pensato di agganciarmi alla parole di Malalai Joya per non sentirmi Giovanni nel deserto: " Questa guerra vile e disgustosa, sta riducendo il nostro paese in uno Stato di mafia e crimini di guerra...sono 12 anni di barbarie, la soluzione ai nostri problemi non verrà mai dagli eserciti che stanno occupando il Paese. Nel 2014 l'amministrazione Obama ha detto che gli americani lasceranno il Paese, ma è una grande bugia, gli Usa hanno approvato la creazione di basi militari private che resteranno", sì, le parole di quest'ex parlamentare afghana ripudiata per il suo senso di verità e il coraggio d'esprimerlo, Malalai, che ora viaggia per il mondo a raccontare la verità sull'Afghanistan e in patria vive in clandestinità per le continue minacce alla sua vita. Questo stavo scrivendo quando il telefono ha squillato interrompendo il flusso delle parole, dei pensieri, quando ha squillato nuovamente e in linea v'era ancora Kabul. 
Era flebile questa diversa voce, era giovane come di fanciulla. Era Aidha, la sua voce. L'ho riconosciuta al: morning Marika jan...l'ho riconosciuta dopo oltre un anno di silenzio, l'ho riconosciuta subito. Ci siamo salutate, ero felice di sentirla, le ho fatto mille domande in quella nostra lingua mista tra inglese dari e italiano, poi lei:  Ricordi, Marika jan, Jamal? Sì. certo che lo ricordo. Ci siamo sposati l'anno scorso, ma l'altro sabato sono scappata da casa. 
La storia cambia. Lei racconta io ricordo, immagino. L'altro sabato è una settimana fa. Erano stati promessi l'uno all'altra che avevano dieci anni. Ora ne hanno diciassette. Aidha parla di eroina, di violenza, di botte ricevute. Parla di un bambino perduto per le botte ricevute al quarto mese di gravidanza. Aidha parla e il cuore mi si stringe. E' orfana di guerra Aidha, di questa sporca guerra. Ora è tornata da una vecchia zia, di Jamal non sa nulla da una settimana. Ricordo Jamal, era un bambino splendido nel cuore e sul volto. 
In Afghanistan un grammo di eroina costa meno di 7 dollari, circa 5 euro. I tossicodipendenti, ad oggi, sono più di due milioni, un numero enorme dove deserto e montagne diradano gli uomini, un numero in aumento. Di questo numero un terzo sono donne e bambini. Bambini molti assuefatti già a due, tre anni per induzione, dal respiro dei genitori. Nella sola Kabul i tossicodipendenti sono oltre 70.000. L'antico palazzo di Darul Aman, vecchia sede culturale reale, ora forato in ogni dove, di notte è un girone dell'inferno dantesco, lo stesso girone che di giorno è sui prati e sotto i ponti della città, tra fango ed acque gelide in inverno putride in estate. E pensare agli antichi giardini di Kabul, alle sue antiche bellezze. ma questa è un'altra storia. E' storia di ricordo. 
Ora, la peste silenziosa, l'AIDS, s'aggira per la città in aumento anch'essa, mentre dalle raffinerie d'oppio, prima inesistenti così come sconosciuta era l'eroina, piovono sul popolo quantità di questa sostanza e, negli ultimi tempi anche di crack. L'abbiamo detto in altre pagine, ma lo ripetiamo: le raffinerie, tante, sono tutte in zone controllate da Usa e GB. E il traffico parte e si sviluppa al 99% dalle stesse zone. 
E' così che si distruggono i popoli, che si annientano le generazioni, che si frantumano interi mondi. Sono armi micidiali queste, altro che le chimiche della Siria.  Kabul s'è fatto emblema di devastazione, emblema d'un paese annientato, sgretolato non solo nelle sue mura, nelle sue millenarie bellezze naturali, artistiche, storiche, ma nell'anima, nella moralità, nella dignità. E  la droga ha gioco facile, "solleva" dalla disperazione, ottunde le coscienze, annulla il dolore, ogni dolore. Dinanzi a questa devastazione gli estremismi, se ci sono si acuiscono, se non ci sono, si formano. Da una parte e dall'altra, nella criminalità che contribuisce, alimenta, la distruzione, nel fanatismo che ad essa vuol porre fine. Dove far pendere la bilancia? I così detti taliban, non sono nulla o quasi al confronto di questa occidentale vile arma di distruzione di massa, questa strategia di morte. Come potremo sostenere la severità degli sguardi afghani, di coloro che resisteranno alla nostra criminale follia?
Marika Guerrini

scatto di Barat Alì Batoor

lunedì 13 gennaio 2014

tre piccoli eroi

... Italia, Custoza, luglio 1848, battaglia di Custoza: 
l'ufficiale è sugli attenti, ritto, mano destra alla fronte, ha dichiarato: "Io non sono che un capitano. Tu sei un eroe". Lui che mai aveva rivolto a un suo sottoposto, parola che non fosse di comando, ora al capezzale di quel ragazzino, non riusciva a distogliere sguardo e dolore dal corpicino inerme, abbandonato e monco di una gamba su di un materasso in terra fra tanti, in quella chiesa ospedale da campo. Non riusciva a proferire altre parole dopo il flebile richiamo che aveva attirato la sua attenzione. Il piccolo eroe di De Amicis, quello passato alla storia, la nostra, come "il tamburino sardo", quello della Prima Guerra d'Indipendenza, quello a cui poche ore prima aveva affidato un dispaccio da consegnare, era lì. Aveva messo a repentaglio la propria vita, il tamburino, aveva corso lungo la collina, e colpito s'era rialzato, e colpito ancora s'era rialzato ancora per correre ancora e ancora fino al massacro della gamba, al compimento della missione: consegnare allo squadrone dei carabinieri a cavallo il foglietto segnato a matita dal suo capitano, il foglietto con la richiesta d'aiuto, di rinforzi contro gli austriaci, il foglietto custodito, ripiegato sul cuore. 
E' episodio del passato, questo, quando l'Italia, non ancora una, aveva preso a combattere per la libertà. E allora, malgrado i rinforzi giunti, la battaglia non era stata vinta dai piemontesi, ma un intero battaglione era stato salvato dal fuoco nemico e quel tamburino di quattordici anni ne era stato artefice.

Italia, Campoferro, maggio 1859, battaglia di Montebello: 
un bambino di dodici anni, Giovanni Minoli, un grande albero, un drappello di soldati piemontesi e francesi seguiti da sodati austriaci. Il pericolo era grande. A Giovanni viene chiesto di salire sull'albero per scorgere il nemico, gli austriaci, calcolare la distanza. Giovanni sale, li scorge, avverte. Gli viene detto di scendere, la missione era compiuta, ma Giovanni vuole essere sicuro della distanza, di più, si sporge dalle fronde, viene scorto dal nemico, colpito ad un polmone, cade. La "piccola vedetta lombarda" come De amicis lo chiamerà nel suo libro "Cuore", non morirà sul colpo, prima attraverserà sei mesi di atroci sofferenze vegliato giorno e notte da soldati piemontesi e francesi, come angeli custodi a cui aveva salvato la vita in cambio della propria. Anche quella battaglia non fu vinta, si era nella Seconda Guerra d'Indipendenza, ma lui aveva vinto la propria.

Pakistan, Ibrahimzai, gennaio 2014, distretto di Hangu, Provincia di Khyber Pakhtunkhwa:
quattro giorni fa, una scuola con più di mille allievi, la Boys High School di Ibrahimzai, un'assemblea, tre allievi in ritardo nel cortile della scuola, si affrettano. Uno di loro è Aitzaz Hasan, poco più di quattordici anni. Un giovane con la loro stessa divisa scolastica chiede informazioni. E' uno sconosciuto. Aitzaz si insospettisce, intuisce il pericolo, lo affronta. Lo sconosciuto si divincola, prova a continuare l'azione, Aitzaz  è deciso a fermarlo. Lo sconosciuto si fa esplodere. Aitzaz è con lui.
Zahidullah Bengash, uno dei tre ritardatari, cugino e coetaneo di Aitzaz, rimasto lievemente ferito, in un'intervista telefonica dice: " mio cugino ha avuto un sospetto, ha chiesto la sua identità e come mai non l'avesse mai visto prima. Lo straniero ha cercato di scappare e Aitzaz lo ha affrontato. Nella lotta l'attentatore si è fatto esplodere..." e ancora:" Aitzaz era molto vivace e cordiale, amava il suo paese e i suoi amici. Ha sacrificato la sua vita per loro."  
Centinaia erano gli studenti presenti all'assemblea quella mattina, centinaia sarebbero saltati in aria, Aitzaz ha salvato loro la vita. Ora riposa in quel luogo ultimo e ricolmo di fiori come i cimiteri sono in quelle terre. L'azione bellica, ché tali sono queste, rientra negli attentati settari contro gli sciiti. Il nemico era un militante del gruppo estremista sunnita Lashkar-e-Jhangvi, da noi citato più e più volte a proposito del genocidio del popolo Hazara. Ma non di questo vogliamo parlare, non ora, non stavolta, non di quel che andiamo ripetendo da un tempo che s'è fatto troppo. Né vogliamo sottolineare quel che si cela dietro queste azioni criminali, quel che le muove, non vogliamo ripeterci, no. Stavolta vogliamo ricordare tre piccoli eroi, soltanto, tre piccoli eroi apparentemente distanti nel tempo e nello spazio, eppure così vicini da annullare la dimensione spazio temporale, da confermarne l'illusione. Così vicini da sottolineare quanto in alcuni paesi, che non sono più quelli del nostro occidente, la forza degli ideali viva ancora nei ragazzi o poco più che bambini, fino al sacrificio della vita. Malgrado tutto. Di null'altro vogliamo trattare, ora, di null'altro. 
Marika Guerrini
foto dal web