…“Gli Stati Uniti devono lasciare il Paese”
parole di Ismail Khan pronunciate
ad Herāt martedì 31 ottobre, poco più di una settimana fa, giunte a noi oggi,
ora. Parole che non lasciano dubbio, seguite da: “In Afghanistan ci può essere
pace e sicurezza solo con un Governo sostenuto dal popolo e scelto per elezioni
o da una Lloya Girga (Consiglio Nazionale)” e ancora ” L’Afghanistan non può
essere affidato a militari stranieri… La Libertà, l’Indipendenza e la Religione
sono nel sangue del nostro popolo”. Ha parlato poi dell’alto grado di
corruzione nel Governo, dell’inettitudine. In risposta, a distanza di due giorni, Rex Tillerson, in una
visita improvvisata a Kābul, ribadendo l’impegno americano nel Paese si è
complimentato con il Governo per essersi fatto “più vibrante”, benché non abbia
negato la corruzione, né avrebbe potuto data la valutazione del Transparency
International che, in un sondaggio, attribuisce alla corruzione dell’attuale
Governo afghano il 96% di presenza rispetto al sistema internazionale. A
completare la risposta, a distanza di quattro giorni, ieri, la Nato rafforza di
3.000 uomini il contingente militare in Afghanistan.
Chi sia Tillerson lo si sa, Segretario di
Stato americano, cosa sia la Nato neanche a dirlo, chi sia Ismail Khan lo sanno
solo gli afghani.
Ismail Khan, denominato dai locali il “Leone di Herāt” alla
stregua del ben più noto “Leone del Panjshir” Ahmad Shah Massoud ucciso per la
libertà, parla a ragion veduta, non tanto per essere stato Ministro
dell’Energia Elettrica e dell’Acqua sotto il Governo di Hamid Karzai che,
malgrado la corruzione, tra l’altro endemica specie tra l’etnia pashtun, aveva
comunque una linea guida, cosa che rese poi Karzai inviso agli americani sì da
procurarne in maniera infida, come da prassi, la caduta, conosciuto e stimato neppure, Ismail Khan, per il ruolo di
Governatore della provincia di Herāt che ha coperto, non per le
molte cariche anch’esse affidategli in passato, né per i molti ruoli chiave, quanto
per essere stato uno di quei comandanti mujaheddin che hanno fatto la storia
afghana contemporanea, combattendo negli anni ’80 i Sovietici fino a cacciarli
e, negli anni ’90, i primi Taliban, quelli costruiti direttamente
da Washington nelle madrasse pakistane. Non a caso infatti Ismail Khan ha anche
detto: “Una delle cose che gli americani e l’attuale Governo hanno fatto è
stata tenere i mujaheddin fuori dal potere governativo” e ancora, al timore
espresso da alcuni circa il ritiro completo delle forze straniere che, secondo
loro e a torto, lascerebbero il fianco ai Taliban: ”I mujaheddin potrebbero
coprire il ruolo delle truppe
straniere” e ancora: “I Taliban dovrebbero far parte del Governo così come ci
dovrebbe essere la rappresentanza di tutti i gruppi etnici e delle varie
fazioni politiche”. Poi ha concluso: “ Quando l’Unione Sovietica invase il
Paese, nessuno pensava di poter superare la loro forza bruta, ma con l’aiuto di
Dio ce l’abbiamo fatta” e ancora:” Chi avrebbe pensato che l’Europa orientale
sarebbe stata libera dai Sovietici, eppure dopo 70 anni ha ottenuto la libertà.
Abbiamo quindi la speranza di poter superare anche i nostri problemi”. Ed ecco affacciarsi la speranza,
quest’ultima dea che ancora e malgrado aleggia tra quelle genti.
Sì, i loro problemi, i problemi da tempo
costruiti e alimentati dai nostri problemi ché altro fulcro non v’è allo
sfacelo globale. Che si manifesti in guerra, in povertà economica, che si
manifesti sui volti scarni dei bambini fotografati dalle Onlus, quelli che in
cornice video entrano nelle nostre case, in modo che, per dirla in gergo, ci si
possa mettere l’animo in pace con nove euro al mese, o giù di lì. I nostri
ipocriti Aiuti Umanitari a coprire la nostra povertà di valori che i nostri
giovani d’occidente ci mostrano in ogni nostro giorno con i loro disagi, i
disagi che fanno cronaca drammatica, spesso, quando non tragica, i disagi su
cui interveniamo con la psicologia anziché prevenirli con la ripresa dei valori
etici, morali, con la ripresa d'un reale rispetto per l’infanzia, perché è lì che si creano i
futuri drammi, le tragedie future. I disagi su cui interveniamo con i dibattiti
televisivi a fare audience, su cui guadagniamo. Mentre tutto continua.
In questo tutto che continua, il cuore è, a
volerlo scorgere, in una palese diversità: in questi paesi da noi martoriati,
annientati, a cui ancora una volta occiriente, sì che Giovanni nel
deserto, dà voce, questi paesi di cui abbiamo distrutto la storia delle cose e
degli uomini, questi paesi che si è costretti a lasciarsi alle spalle per
raggiungere lidi d’un occidente al tramonto, in questi paesi, i figli, sono
ancora capaci di morire per un ideale di libertà. E lo fanno ovunque, dentro e
fuori dai confini, in terra lontana, sconosciuta, che mai conosceranno. Che mai
li riconoscerà. Li ricorderà. Morire perché la libertà scorre nel loro sangue, come dice
Ismail Khan. Ma noi non ascoltiamo. Non sappiamo. Non vogliamo.
La guerra in realtà è nostra, la guerra che
non riusciamo a vincere è in noi stessi perché abbiamo perso la libertà, il suo
vero senso. Quello intriso di sacralità. Persa insieme alla voce dell’anima. La sua voce.
Mentre tutto continua.
Marika Guerrini
immagine: Barat Alì Batoor (coll. privata)