... quanto ampia sia, per l'animo umano, la capacità di immagazzinare dolore, si può svelare da un momento all'altro e allora può accadere di ignorare lo squillo del telefono, ignori il nome comparso sul display, ignori il cuore che suggerisce: rispondi, e non lo fai, ignori, sebbene lo squillo giunga da un paese che ami, così come il nome sul display, ma il paese ha il dolore radicato nella roccia, da tanto, da troppo, e tu non vuoi, non puoi. E' stato oggi, qualche ora fa, mentre mi accingevo a segnare opinioni su questa sventurata Italia tradita da chi dovrebbe proteggerla, su quest'Italia falsamente liberata dall'ignoranza di governanti-lacchè per venire scaraventata tra le fauci di un inappuntabile drago. E' stato oggi, qualche ora fa, che il telefono ha squillato, che l'occhio ha riconosciuto il numero sul display, che la mente è tornata a Kabul. Non ho risposto. Poi ancora qualche istante e lo squillo si è riprodotto e un altro numero è apparso, altro numero ma stessa provenienza geografica. Ancora qualche istante e un terzo squillo, un terzo numero, stessa provenienza, ancora. Non ho risposto. Ho posato la penna, ho fatto silenzio in me come a temere che il respiro potesse azionare nuovamente lo squillo d'un qualsiasi telefono lontano, molto lontano. Le riflessioni sulle itale sventure se n'erano andate con tutto il loro interesse. Ho atteso ancora attimi, poi la mano si è mossa di moto proprio, il dito anche: ho digitato l'ultimo numero. La voce è giunta immediata. Ho ascoltato. Ho digitato poi il penultimo numero. Ho ascoltato. Infine ho digitato il primo. Voci diverse e simili, lontane raccontavano dolore e dolore e dolore. Non si fa l'abitudine al dolore, chi afferma il contrario è perché non sa viverlo fino in fondo.
E' tanto che non scrive di noi, perché? Questo, tra le altre parole, ha detto la voce del primo squillo. Ho taciuto. Anche la voce ha taciuto ma in attesa. Poi con uno sforzo che ho vissuto sovrumano: Perché dopo anni di massacri, rivolte, stragi, distruzioni, anni di menzogne, di denunce, si diventa saturi, io sono andata oltre la saturazione, ho superato anche quella, non so più cosa dire, non so più che linguaggio usare, forse non so più cosa pensare, anche. E' quel che ho risposto all'attesa per poi pentirmi delle mie parole. All'altro capo, nell'etere: silenzio. E' a questo punto che gli ho raccontato una storia, una storia in versi che tempo addietro, molto tempo, lui, la voce, aveva raccontato a me, una storia scritta da Firdusi, il grande poeta, versi come una fiaba in cui a volte dolore e sofferenza servono a formare esseri speciali che possono far nascere la luce dalle tenebre, una storia poetica che ora racconto a voi. Ascoltate.
" ... V'era un monte a nome Alburz, vicino al sole, remoto da umano consorzio. Ivi aveva il nido il Simurg, in luogo ignaro del genere umano. Su quel monte lo deposero e tornarono via. L'innocente figlio dell'eroe non poteva ancora distinguere il bianco dal nero. Il padre recise il legame d'amore gettandolo via spregiato, ma quando il padre lo gettò via spregiato, lo raccolse Iddio nutritore. In quel luogo giorno e notte se ne stava abbandonato quel piccolo senza riposo, ora si succhiava la punta delle dita, ora piangeva. Quando i piccoli del Simurg ebbero fame, l'uccello si levò alto al volo dal suo covo: ed ecco vide un lattante che gemeva e la terra intorno come un mare fluttuante. Sua culla era la roccia, nutrice la terra, il corpo senza veste, il labbro senza latte. A lui dintorno nera terra squallida, alto sul piccolo batteva il sole... Il Simurg calò giù dalle nubi, protese l'artiglio, lo sollevò su da quelle rocce brucianti e lo portò via di volo fino ai vertici dell'Alburz. Così passò lungo tempo che il piccolo si trattenne segretamente in quel luogo. Egli divenne un uomo pari a un nobile cipresso, il petto come un monte d'argento, la vita come un giunco. La fama di lui si diffuse pel mondo. Il male e il bene non restarono mai celati... "
Marika Guerrini