sabato 22 giugno 2013

"Alpini in Afghanistan" una recensione


... conosce la severità di occiriente chi frequenta le sue pagine. Quella severità pronta a notare chiunque o qualunque cosa intacchi, abbia intaccato o intaccherà principi come lealtà, verità, coraggio ancor più se inerenti a quella terra afghana, a quelle genti che da molto più di quanto si faccia trapelare, popola i nostri pensieri. Ed è con questa stessa severità, che abbiamo sfogliato, letto, immaginato "Alpini in Afghanistan", un breve, caldo diario, affidato dapprima al web, poi fissato su carta, da esponenti dell'ultima missione della "Taurinense", sezione di originaria memoria all'interno del Corpo degli Alpini, di stanza laggiù.
Caldo, sì, non aggettivo a caso, ché calore è ciò che emana dalle pagine, gli scritti, le foto. Calore che ancor più emana dai racconti, la loro linearità, la modalità tradotta in parole che si fanno immagini. E si entra in Afghanistan. Si entra attraverso la vita della Brigata alpini "Taurinense". E le pagine si snodano narrando quel che i media tacciono perché non fa notizia, non dà forte sensazione, non colpisce. Tutto quel positivo dietro a lato, oltre il negativo. 
" 27 sabato ottobre 2012, ventisette a uno è la partita che dallo scorso mese si gioca quotidianamente tra le bombe rudimentali... ventisette disinneschi contro una sola esplosione a terra, che ha soltanto danneggiato uno dei blindati...". E "Ventisette a uno" si fa pagina emblematica di quotidiane situazioni laggiù. Situazioni in cui l'uno, viene rilevato dai media, il ventisette no. L'uno, l'esplosione, così come feriti, caduti etc., fa notizia e le ventisette bombe disinnescate, che rese tali, hanno salvato ventisette, minimo, vite umane, non fanno notizia.  
Molti sono gli episodi di non-notizia che si mostrano in queste pagine di diario, episodi tenuti sotto silenzio, voluti sotto silenzio, perché si formino opinioni unilaterali, di comodo, di opportunità. Tenuti, voluti, da politica, diplomazia, ignoranza, nazionale, internazionale, non fa differenza.
E c'è la bella storia di Yacki e del suo amico Caporal Maggiore del genio, in " Binomio K9" Lì dove Yacki è una femmina di pastore tedesco, pronta a dare la vita per fedeltà. Lì dove Yachi viene premiata ad ogni ritrovamento, ogni segnalazione di ordigno esplosivo e non viene rimproverata tanto meno punita, per un mancato avvertimento, nel qual caso è come non fosse accaduto nulla. E' storia d'un amore su campo di battaglia, in realtà.
E ci sono passaggi come in "Cartolina da Kabul", in cui. " Mancavo da Kabul da quattro anni... lo spazio che non è occupato dalle macchine...è riempito da gente che trascina carretti pieni di rami secchissimi, ragazzini a cavalcioni di asini magri, donne con prole al seguito ( le bimbe con un bel velo bianco sul capo che le rende eleganti)..." E qui l'immagine delle bimbe incorniciate dal velo bianco sprigiona un sapore di poesia che, quando presente in un individuo, dispone gli uomini alla comprensione di terre lontane e sconosciute, mettendo in luce quello spirito italiano che si pone oltre i ruoli richiesti dalla vita. 
E passaggi come in "Herat, Seshhanbeh, 12 Jaddi 1391" in cui la diversità dei mondi s'incontra in un reciproco ampliamento di conoscenza che, se lasciato libero di esprimersi, se ascoltato, può farsi possibilità di saggezza che dall'antico fluisce nell'oggi, in questo nostro mondo d'occidente fattosi arido, spesso, troppo spesso, così: "... le differenze con il nostro calendario non mancano... ma la più grande riguarda non tanto il conteggio dei giorni quanto la percezione del tempo. Il rito del thè bollente servito agli ospiti prima di ogni incontro pubblico, gli uomini accovacciati nelle strade a chiacchierare, la lentezza con cui gli anziani salutano chiunque passi loro davanti, tutto fa pensare a un non detto: Voi avete gli orologi. Noi il tempo." Ed è così.  E' uno dei loro grandi segreti nei confronti della vita, quello di possedere il tempo. Tempo misurabile, il nostro. Immisurabile tempo senza tempo, il loro. E suggerisce una tecnica di trasformazione e conoscenza di sé e di sé nell'universo, da noi dimenticato. Perché è a quell'immensità che, se pur inconsapevolmente, loro attingono. Ancora. Malgrado tutto.
Sì, è bello l'acquarello di pagine e immagini che ci si mostra in " Alpini in Afghanistan", in cui si palesa qualcosa che occiriente da sempre tenta di mostrare: le "guerre" possono condursi sì che trasformino le loro caratteristiche in ausilio, dipende dall'uomo che le attraversa, a lui la possibilità di portare luce nelle tenebre. La capacità. "Alpini in Afghanistan" mostra questa grande facoltà dell'uomo. Questa facoltà innata, presente nello spirito italiano, anche qui quando lo si lascia esprimere. Semplicemente.
Occiriente  ha quindi il piacere di segnalare questo diario acquarellato che dà la possibilità di affacciarsi su alcune atmosfere di quella terra che continua a restare ai più sconosciuta. Terra che avrebbe tanto da donare di ben più importante delle sue risorse materiali. Da donare attraverso lo scorrere dei suoi antichi silenzi, delle sue nascoste bellezze. 
Marika Guerrini
foto- copertina di 
"Alpini in Afghanistan", Edizioni Susalibri, Torino 2013

giovedì 13 giugno 2013

Afghanistan... in quattro giorni

...8 giugno, Farah
esplode un ordigno lanciato contro un Lince italiano. Un morto, Giuseppe La Rosa, 31 anni, capitano dei Bersaglieri. Tre feriti non gravi. Azione attribuita a:
I versione - uomo in divisa dell'esercito afghano
II      "      - bambino di 11 anni
III     "      - un taleb
IV     "      - Walick Ahmad, 20 anni quasi, reo confesso quattro giorni dopo.

8 giugno Paktika
un attentato provoca tre morti Usa, due soldati, un civile. Dinamica ad oggi non resa nota, dichiarata soltanto alla base dell'Isaf, pare. Unico elemento noto: l'attentatore indossava la divisa dell'esercito afghano.

9 giugno, Kandahar
rapiti Khan, 10 anni, e Aminullah, 16 anni. Stavano procurando cibo (scaduto) per le rispettive famiglie nei bidoni dei rifiuti esterni alla sede della Questura e a quella dell'Isaf.

10 giugno, distretto di Zhari, presso Kandahar
ritrovati i resti (teste) del piccolo Khan e di Aminullah. Accusati della decapitazione i taliban. Qari Yousef Ahmadi, portavoce dei taliban, asserisce con forza l'estraneità al fatto e dichiara alla BBC: i taliban ritengono questo atto un'atrocità.

10 giugno, Kabul, aeroporto internazionale
4,30 ora locale, sette miliziani attaccano il settore militare dell'aerostazione. Vi è una sede Nato ed altre basi straniere. Morti i sette miliziani. Cinque nel conflitto a fuoco con le forze dell'ordine locali mentre due si sono fatti esplodere.  

11 giugno, Kabul -centro città-
parcheggio esterno alla Corte Suprema e nei pressi dell'Ambasciata Americana, un'auto bomba esplode contro un autobus. 17 morti, personale del tribunale compresi alcuni giudici, e 40 feriti (da vetri e metalli in frantumi) per lo più residenti nel quartiere residenziale adiacente. Azione rivendicata dai taliban. Motivo: la Corte Suprema è il braccio del Governo venduto allo straniero.
Durante il recupero dei feriti un soldato dei soccorsi ad un giornalista straniero che voleva porgli domande: vattene, gli ha detto, è tutta colpa degli stranieri.

11 giugno, Farah
ordigno lanciato contro Lince italiano esplode all'esterno. Illesi gli alpini a bordo, feriti civili afghani, numero non pervenuto né richiesto (non interessa). 

Sì, non c'è molto da aggiungere a questi giorni sommati a giorni di questi eterni dodici anni di guerra laggiù. Dodici e un po'. Escalation di Primavera, narra la leggenda secondo cui i taliban si attivano ancor più con lo scioglimento delle nevi perché lasciano i rifugi dell'Hindu Kush. Ci sarebbe di che regolare gli orologi: lo scioglimento delle nevi dell'Hindu Kush e la recrudescenza dell'offensiva talebana, se non fosse che i taliban non dimorano né scendono dall'Hindu Kush. Non solo non sempre non è detto. Ma questo la coltivata ignoranza d'occidente non lo sa, come non sa o non s'avvede di quanto siano interessanti le divise indossate dagli attentatori, per il solo fatto d'essere indossate, per il solo fatto d'essere dell'esercito o della sicurezza afghana. Sono esplicite d'un movimento intrinseco al popolo anche solo per questo. Molto per questo.
Taliban, mujaheddin, comuni civili, soldati regolari, irregolari, ardua è la distinzione, impossibile ora, oggi, in questi giorni, da tempo.
L'Afghanistan è stanco. Stanco di distruzione, di violenze di ogni tipo, carnali anche, su minori anche, specialità inglese, questa, come la Corte Marziale londinese ci ha mostrato la scorsa settimana, limitandosi a multare un soldato del contingente britannico per abuso su un bambino afghano. Il termine pedofilia non è stato menzionato, ovviamente. 
L'Afghanistan è stanco del subumano che striscia sul suo suolo, che lo calpesta da tanto, troppo. E' stanco di contare i propri morti ogni giorno, 24% in più rispetto al 2012, e sale al 27% se si tratta di bambini, in questo anno a metà del suo corso. Stanco di vittime innocenti per di più offese dalla menzogna, che si fa blasfemia, di chi neppure riconosce il crimine, neppure lo ammette, sì che in episodi come questo:
... immaginate un campo di cereali e otto bambini chini nel cogliere spighe, chicchi. Immaginate un rombo, un aereo, un bombardamento a tappeto. Immaginate l'erba, i cereali, i bambini. Immaginate odore di bruciato e... silenzio. Il più grande aveva 9 anni. Immaginate il villaggio non distante dal campo di cereali. Immaginate l'accorrere dei genitori al tuono delle bombe. Immaginate otto piccole salme tra le braccia dei genitori e un cammino, breve, e una base della coalizione. E' francese in questo caso lo straniero, ma nulla cambia.  
Guardate cosa avete fatto, è lo strazio materno ad urlare mostrando i piccoli corpi dilaniati. No, è stata la risposta straniera, noi abbiamo bombardato i talebani. 
E allora portateci i corpi dei talebani, hanno urlato le voci della strazio e del coraggio riconoscendo la menzogna, portateceli! 
Gli stranieri in divida di "pace" hanno allontanato genitori straziati con i loro piccoli corpi addormentati. Quelli dei talebani, i corpi, non sono stati mai mostrati. Non c'erano. 
Tutto può farsi liberazione. Tutto purché non pronunci parlata straniera. 
Marika Guerrini      
foto di Barat Alì Batoor

domenica 2 giugno 2013

Istanbul e la miccia turca

... cresce con il persistere della rivolta la preoccupazione per la Turchia. Non vogliamo dare spazio a timori né adito ad analogie tra Taxim Meydani e Piazza Tahrir. Altra terra, altre condizioni, altro popolo. Ma resta indubbio che tutto si presenti alla mente, ritorni agli occhi con forze dell'ordine in assetto da sommossa, lacrimogeni, cannoni ad acqua, arresti (ad oggi 40 pare), feriti (ad oggi una decina, pare). Istanbul non si tocca, verrebbe da urlare, ma quel che la cronaca ci ha mostrato, ci mostra, parla una lingua diversa.
I fatti li conosciamo. Sappiamo che, domani una settimana, una manciata di ambientalisti, dicono dieci, fermi in un pacifico sit-in, attendatiti al Gezi Park, dopo quattro giorni si è trasformata in rivolta. Lì nelle adiacenze di Taxim Meydani, piazza, cuore moderno, pulsante, europeo di Istanbul. Luogo d'incontro d'intellettuali, studenti, artisti, luogo di musei, pub, hotel, ristoranti: quando la città dorme Taxim vive, ricorda un detto locale. Lì, il pacifico silenzio, s'è fatto protesta di migliaia, diecimila più o meno, di manifestanti contro il Governo. E s'è creato un Movimento, improvviso anch'esso, anch'esso come sorto dal nulla, denominato "Occupy Gezi". E non ci piace. Questa faccenda dall'acre sapore di sobillazione, infiltrazione, costruzione... non ci piace. Non ci piace che la protesta, in un batti baleno, si sia fatta d'ogni  tipo, dagli scioperanti della Turkish Airlines a sindacalisti della Confederazione Disk, dai gay d'ambo i sessi, loro malgrado, a parlamentari dell'opposizione, da esponenti del Partito Curdo (ferito Sirri Sureya Onder-deputato curdo) ad attivisti del Movimento Light, da amanti e o consumatori di alcool ( ci sono state recenti misure costrittive governative su pubblicità e vendita di alcolici) a militanti per i beni comuni e ancora e ancora, tutti lì a rinfoltire la manciata di iniziali ambientalisti. Tutti in un batti baleno. Tutti sappiamo quanto il tutto celi una manovra...e non ci piace. 
Ora, prescindiamo per un attimo, anche solo per un attimo, dall'arroganza di Erdogan, dal suo centralismo, dalla rigidità e l'attitudine al comando, prescindiamo dalle accuse del popolo: osserviamo dall'alto, con distaccato occhio storico. Ci si presenta anche qualcos'altro che non ci piace: il "preoccupato" commento statunitense sulla faccenda. "Siamo convinti che  a lungo termine, la Turchia, stabile, sicura e prospera, darà maggiore possibilità di espressione, riunione e associazione, che è quel che sembra chiedere la gente.", così Jen Psaki, portavoce del Dipartimento di Stato. Portavoce d'una voce dimentica dei fatti americani dell'ottobre 2011, dei fatti occorsi tra Wall Street e il ponte di Brooklyn, dei circa 700 arresti di giovani pacifici, dimostranti  contro l'iniquo assetto economico etc. Voce dimentica delle violenze perpetrate dalle forze dell'ordine, ben più che manganellate, lacrimogeni ed acqua pressata. Oltremodo dimentica che questa è prassi nei "democratici" States. Ma quest'ipocrisia della voce dimentica ci fa comodo: ci mostra la zampa, quella che, fingendo una preoccupazione per l' "amico" Erdogan, lo silura e aderisce alla rivolta di comodo. No, nulla va tolto alla rivolta, nulla va tolto alle legittime richieste, ma perché non si dice che i manifestanti hanno già ottenuto soddisfazione, che il Tribunale di Istanbul, malgrado l'ostinazione di Erdogan, non solo ha accolto il ricorso, ma ha annullato il permesso di demolizione degli alberi dando quindi impedimento alla costruzione. Perché non si dice che dieci imprese, facenti parte del progetto, l'hanno abbandonato  aderendo alle richieste dei manifestanti. Perché non si dice.
Sì, certo, ora la rivolta ha assunto altra forma per via dell'agglomerato di manifestanti per un po' di tutto, ma questo non basta. Quale il fine ultimo: la deposizione di Erdogan, le sue dimissioni? Malgrado le carenze governative, la legittimità delle accuse mosse dal popolo, malgrado la base Nato, l'"amicizia" americana, le strette di mano, gli accordi, malgrado l'Europa, è forse Erdogan troppo poco burattino per soddisfare appieno il movimento della zampa sulla regione? Non va dimenticato questo, né la Siria, né la precedente amicizia fra Erdogan e Assad. Non va dimenticata Israele con le sue inarrestabili  paturnie tarantolari. Non va...  ma non ci va di ricalcare il noioso già detto.         
La speranza è che, nel tempo di questa pagina, la rivolta si sia chetata o stia per. E' che nessuno osi fare di Istanbul una miccia per la sua terra ed oltre. E' che non sia scritto che si svegli un mattino tra i fumi d'una primavera assassina come già in altri lidi. La speranza è che Istanbul possa continuare a tuffare le sue splendide rive nel Bosforo, in quell'estremo lembo d'Europa, lì, tra passato presente e futuro, occidente ed oriente. Ma questa, come spesso accade in queste pagine, è desiderio di scrittore, utopia, forse. Null'altro.
Marika Guerrini.