domenica 24 luglio 2016

tragedie a due velocità- attentato agli Hazara a Kabul

...  ieri 23 luglio 2016, mentre immagini riportavano, in un ossessivo ripetersi lungo oltre ventiquattro ore, la tragedia consumatasi a Monaco di Baviera con i suoi 10 morti, e spari seguivano accavallandosi a spari e volti a volti, e interrogativi a pseudo risposte accompagnate dalla retorica giornalistica, la maschera tragica del volto di Alì  Somboly, diciottenne autore della tragedia, evidenziava un altro dei tanti preoccupanti aspetti della nostra società, il "bullismo" giovanile, fenomeno da anni riportato dalle cronache, per lo più locali, e sottovalutato malgrado segnalazioni di esperti ne abbiano sottolineato, e sottolineino diffusione e pericolosità sociale, ma a questo dedicheremo altra pagina. Ora , tornando a ieri, mentre tutto questo indugiava su mezzi di comunicazione tradizionali e social network, contraddicendo le parole che suggerivano prudenza sul diffondere i contenuti della tragedia onde controllare eventuali future emulazioni, a Kabul un attentato feriva 231 persone e ne uccideva 81 oltre ovviamente agli attentatori. Suicidi diversi nei due casi, all'occidentale con colpo di pistola alla tempia,  quello di Alì Somboly, alla maniera orientale, di moda ai nostri giorni, con esplosione, a Kabul. Ma Kabul è lontana.
A Kabul è assente la possibilità di flash, di zoom, di interviste, di commenti, di analisi psicoanalitiche e psichiatriche. Su Kabul non ci si interroga, non lo si è mai fatto per davvero, è sempre stato tutto spiegato a priori, giustificato a priori. Per Kabul non ci si interroga sul fatto che ora oltre ai Taliban e ad Al-Qaeda, ormai in disuso, sia presente il Daesh che tra l'altro i Taliban combattono. Per Kabul non ci si chiede come sia stata e sia possibile, l'infiltrazione prima la presenza poi, del Daesh con tutto il dispiegamento Nato, con la massiccia presenza militare, italiani compresi, a "protezione" del paese. Non suscita alcuna curiosità come faccia il Daesh a procurarsi continuamente armi all'interno del paese e ad agire indisturbato mentre la Nato anziché bombardare le formazioni Daesh bombarda i Taliban che lo combattono. Alcuna curiosità per Kabul. Che tutto questo accada a Kabul, per il mondo è "normale". A Kabul si muore di "normale". E si muore ogni giorno da quel malefico ottobre del 2001. 
Ora, se a Kabul si muore di "normale" e il "normale" non fa notizia, per cui ogni fatto del genere viene solo accennato in passaggi tra una notizia e l'altra, figuriamoci se possa fare notizia il fatto nel fatto, ovvero che ad essere colpita è stata la comunità Hazara, per cui quella di ieri, consumata nel quartiere Dehmazang, è stata non solo una strage da attentato "normale", ma probabile azione di pulizia etnica, azione di genocidio. Che poi sia stata guidata, consentita, probabilmente voluta, questo non si sa, comunque è stata comoda. Ma veniamo al motivo immediato.
I dimostranti, tra cui anche dei parlamentari, chiedevano al presidente Ashraf Ghani e al premier Abdullah Abdullah, di rivedere il "Tutap", progetto di elettrificazione. La linea "Tutap" avrebbe dovuto collegare, attraverso l'Hindu Kush, Turkmenistan, Uzbekistan, e Tajikistan all'Afghanistan e al Pakistan, passando per la provincia di Bamiyan. Sì, sempre la Bamiyan dei Buddha giganti distrutti, non solo, ma anche cuore del paese e cuore storico, nonché attuale, dell'etnia Hazara. All'ultimo momento, in barba alle promesse fatte e allo stesso tracciato del progetto, la rotta è stata cambiata: alcun passaggio nella provincia di Bamiyan. Motivo: economico, la linea attraverserà anziché Bamiyan, il colle del Salang, così facendo i lavori saranno velocizzati e milioni di dollari risparmiati. Che poi migliaia e migliaia di persone, quasi tutti di etnia Hazara, continuino a trovarsi in una assoluta  carenza di elettricità, quindi disagi su disagi nel XXI secolo, questo non interessa a quanto pare nessuno, men che mai i governanti. 
Ma i governanti ora presenti in Afghanistan sono venduti al maggior acquirente, non di certo governano il paese per il bene del paese, lasciatelo dire a chi di storia afghana se ne intende. Si torna così alla volontà, e al permesso accordato a questa volontà, di annientare il paese, ridurlo completamente a terra di nessuno, quindi di tutti, e poiché l'etnia Hazara, da anni sottoposta a discriminazione vessatoria, è quella che, malgrado enormi difficoltà, ha visto di recente alcuni suoi esponenti formulare pensieri di libertà e progresso anche fuori dal paese, ecco che, con il pretesto dello Sciismo, essendo gli Hazara sciiti di contro a governanti, Taliban, Al-Qaeda e Daesh,  sunniti, il "normale" a Kabul ieri è stato usato ad hoc, secondo il proverbio "due piccioni con una fava".
Il fatto è che Kabul sembra lontana ma non lo è. Kabul rientra perfettamente nel quadro delle tragedie che stanno invadendo e insanguinando l'occidente. In principio era Kabul, sarebbe da dire parafrasando il sacro se non si rischiasse d'essere blasfemi. Kabul non è lontana.  Kabul vuol dire Russia, vuol dire Cina, vuol dire India. Lo ripetiamo da anni. Un Afghanistan raso al suolo anche nella volontà di libertà, vuol dire, come in un domino, contribuire alla possibilità di una Terza Guerra Mondiale, che, malgrado alcuni affermino il contrario, ancora non è in atto benché i prodromi ci siano tutti. 
A questo va aggiunto che molte giovani menti libere e strategicamente preparate per natura, istinto, propria storia, a Kabul, e fuori dal paese, menti che potrebbero contribuire alla libertà afghana,  si trovano tra i giovani hazara, come volevasi dimostrare. Kabul è la cartina di tornasole dell'inizio, strategicamente la più importante per via dell'area di cui sopra, reale motivo per cui ogni anno viene confermata  e prolungata la presenza Nato, tutti gli altri motivi addotti essendo dei falsi. Non va dimenticato.
Marika Guerrini

foto Barat Alì Batoor. coll, privata-

venerdì 22 luglio 2016

Mohammad il lupo solitario

... il lupo, quando si isola, è per cantare alla luna la propria nostalgia, così narra la leggenda, e narra del forte legame che unisce il lupo all'astro notturno, all'argentea luce. Ed è l'argento il metallo che in antico rappresentava le forze lunari del lupo, così come l'oro le solari del leone. Si chiama licopodium la pianta che nel vegetale corrisponde all'argento, ed è di licopodium che il lupo si nutre quando, nelle notti di luna piena, ulula alla luna la propria nostalgia. Ed è dolore il suo canto, dolore per l'astro di cui porta impronta nell'anima e nel corpo, di cui porta il ricordo. Se assunto in una qualche forma dall'essere umano, il licopodium produce gli stessi effetti medicamentosi che sul lupo, agendo sull'anima, per forza attrattiva della simpatia, s'espande al corpo e l'anima si cheta. 
Ben altro senso si dà oggi all'espressione "lupo solitario", ha sapore di sangue, di morte, né si tiene conto della sua anima. "Lupo solitario" definisce oggi quell'assassino che, svincolato dal comando centrale, nel caso Daesh, agisce per suo conto, per sua iniziativa, in luoghi disparati e lontani dal centro di comando. Ma è questa una definizione a cui chi scrive non crede, non con il significato che gli si dà. Quel che crede è l'opposto, crede che azioni disparate, indipendenti, lontane, siano isolati sfoghi di patologie provocate in esseri fragili, frantumati dalla vita, esseri disperati le cui azioni vengono strumentalizzate da chi vuole spargere terrore, creare caos, sì da indebolire sempre più gli esseri umani, quindi le società, quindi i paesi, quindi i continenti, vedi Europa, al fine di tenere in pugno il potere sotto ogni forma, sociale, politica, economica. Possedere il dominio.
Ma non è questo che interessa la pagina di oggi, anche perché a breve tutto si svelerà da sé, basta avere pazienza, non prestare ascolto alla paura, attendere, come nell'aneddoto  orientale spesso citato, il passaggio del cadavere nemico sul fiume sotto i nostri occhi. Quel che interessa questa pagina è l'analogia che lega il "lupo solitario" umano al lupo solitario animale, e la storia di Mohammad Riad, ma avrebbe potuto chiamarsi Hossain, Mehsud, Mohammadi o in qualsiasi altro modo, con la sua tristezza, si fa emblema di una smisurata incontenibile sofferenza che i soli diciassette anni di vita non hanno potuto controllare, elaborare, guidare.
Per Mohammad Riad, l'incontenibile dolore per l'amico ucciso nel suo lontano Afghanistan, per mano straniera, dell'invasore armato, è andato a sommarsi alle decine e decine di dolori ormai strartificati in lui. E lo strato di dolore s'è fatto violenza, e arnesi da lavoro, da taglio si sono fatti strumenti di rabbia, di vendetta. Si sono fatti armi. Sarebbe stato possibile disarmare Mohammad se gli agenti delle forze speciali, presenti in loco e addestrati anche al disarmo, non avessero fatto parlare la paura nella deflagrazione delle loro armi da fuoco, armi a distanza che non abbisognano del coraggio del corpo a corpo. Così è andata se vogliamo pensare liberi da pregiudizi e comode congetture che ci cuciamo addosso voltando lo sguardo altrove.
Aveva due anni Mohammad Riad quando gente simile per "civiltà" alla gente della terra che ha ospitato gli ultimi due anni della sua vita, ha preso a bombardare l'Aghanistan giustificandosi dietro una colossale menzogna. Quante morti ha visto Mohammad moltiplicarsi da allora. Morti d'ogni tipo, d'ogni fattezza, morti per esplosioni ad ogni ora del giorno e della notte, della notte ancor più, nel sonno, perché questo è d'uso, morti per violenze sessuali consumate da esseri maleodoranti di alcool, morti per bombe a grappolo sotto gialli involucri da cibo, morti per eroina distribuita gratis, morti a volte per scommessa, soltanto, come in una giostra da tiro al bersaglio. Quanti corpi deformi ha visto Mohammad nella sua breve vita, bambini ancor, più per via della data di nascita post 2001, bambini monchi di gambe, di braccia, di ogni parte del corpo, monchi per effetto di armi all'uranio arricchito, armi atomiche usate sulla sua gente. Ma questo lo sappiamo. Quante morti, quanti dolori, quanta paura. Così è cresciuto Mohammad per poi essere allontanato da chi gli voleva bene, perché avesse una vita migliore, quel futuro che in patria era, è, negato. 
Quante morti ancora, quante paure, quante sofferenze ha incontrato Mohammad lungo la via per la "civiltà", la stessa "civiltà" che con la propria distruttiva presenza nella sua terra, lo aveva costretto a fuggire, abbandonare la luna per poi averne nostalgia. Una lacerante nostalgia così come l'incontenibile dolore.  
"Vi combatterò fin quando il sangue mi scorrerà nelle vene", che sia vero o falso, il video con il suo volto e queste parole, non ha alcuna importanza, quel che importa è la solitudine di migliaia di Mohammad dalla mente sconvolta per incontenibile dolore. Migliaia di ex bambini violati in ogni senso e modo dalla nostra Civiltà. Sparsi ora solitari per il mondo. Lupi pregni di nostalgia di quel che fu e non potrà più essere.
Marika Guerrini

foto originale: Barat Alì Batoor, (coll. personale)

sabato 16 luglio 2016

Turchia: il golpe della speranza

Mustafa Kemal Atatürk 
... sono le armi che s'affacciano alla mente alla parole: golpe, lo fanno sempre e a ragion veduta, ma ci sono armi ed armi, le armi turche protagoniste, anche e non solo, del golpe che per poche ore ha attraversato il cielo di Istanbul come una cometa, sono state armi per la libertà. Paradosso ma reale. Il Colpo di Stato era all'insegna dei diritti civili e il ripristino di una democrazia che viene cantata ma non esiste nella realtà. Dietro l'iniziale, imprescindibile in questi casi, istituzione della corte marziale e del coprifuoco, Il Colpo di Stato era sorto per la restaurazione dell'ordine costituzionale ampiamente negato da Erdoğan, così come negata la libertà di stampa, previo incarcerazione, ogni tipo di diritto umano e libertà contrari al potere, perché di potere quasi assolutista si tratta. Dietro al Colpo di Stato c'erano i valori di libertà e progresso dati da colui che ancora è ritenuto il padre della patria, Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938), padre di quella Turchia moderna che l'ignoranza e l'ambizione di Erdoğan, tra menzogna, ortodossia, e servilismo doppiogiochista, stanno distruggendo. Il Colpo di Stato, dietro le inevitabili armi del caso, avrebbe mantenuto tutte le relazioni con tutti i Paesi e tutti gli accordi internazionali. A questo avrebbe portato la sua riuscita. Ma proprio questo il punto: il mondo, quello che "conta" , quello in cui menzogna e ipocrisia la fanno da padroni,  non vuole un paese che agisca secondo indipendenza e libertà, lo vuole servo e sotto ricatto. Bene. Ancora una volta hanno vinto i padroni. E' il gioco perverso che stiamo giocando. Il gioco  utile ad aizzare sempre più la guerra civile in Europa, perché questo è, a destabilizzare l'Europa sempre più, e i flussi migratori sono eloquenti, invasione studiata a tavolino in ogni dettaglio a provocare avversione, razzismo, utile ad attaccare la nostra economia, quella artigianale ancor più, la portante, a seguito delle sanzioni alla Russia, utile al realizzarsi di tragici episodi di "terrore" che continueranno ad insanguinare le nostre strade, utile alle spese militari a cui la Nato chiama perché si continui a tenere in guerra paesi, vedi Afghanistan, servendosi di noi servi orfani di uno Stato Sovrano, che si prona dinanzi all'Alleanza Atlantica e obbedisce, per interessi internazionali che nulla hanno a che vedere con libertà e democrazia e neppure con i singoli interessi di progresso, ma con il loro contrario. Di questo si nutre la belva, di servi e delle loro azioni servili. Le nostre. 
Allora si tiene in vita un governo come l'attuale turco, dopo che si sono provocate terribili "primavere arabe" per molto meno, cosa, anch'essa che ora, fingendo si rinnega, vedi parole di Obama. Si tiene a capo di un paese estremamente strategico, un Recep Tayyip Erdoğan che da sempre arma il Daesh, che massacra i kurdi che combattono il Daesh, che nega la libertà di stampa come abbiamo detto, che abbatte aerei per poi scusarsi, per paura, vigliaccheria, chissà. Che sta portando il paese alla retrocessione di costume e valori fingendo il contrario. Che soffre di manie di grandezza ottomana senza possederne capacità e intelligenza, malgrado ci fossero estremi. Che sta facendo costruire un terzo aeroporto a nord di Istanbul, quasi parallelo al Bosforo, funzionale ad aprire un canale dal Mar di Marmara al Mar Nero, onde evitare il transito nel Bosforo regolarizzato dalla Convenzione di Montreux (1938) che limita a 24/48 ore la sosta nel Mar Nero per navi non appartenenti ai paesi costieri. Il nuovo canale pare si dovrebbe chiamare " Canale Erdoğan" e permettere alle navi statunitensi di sostare a piacimento nelle acque del Mar Nero, ovviamente per la stabilità internazionale. E tutto continua, ma fino a quando? 
Eppure per breve tempo, ieri, nell'oscurità dettata dai tragici fatti di Nizza, malgrado  i carri armati dell'esercito turco, e proprio per questa presenza, abbiamo ritenuto possibile, paradossalmente, il realizzarsi di un'idea di libertà, libertà non solo per la Turchia come Atatürk volle, scintilla di libertà per l'Europa, libertà da chi vuole affossarla e ci sta riuscendo. Ieri questi bagliori si sono intravisti all'orizzonte nel cielo notturno di Istanbul. 
Quei "golpisti" erano, speriamo siano, del "Consiglio di pace in patria" questa la definizione, vale a dire fedeli ai principi innovatori e progressisti di AtatürkErdoğan ha sempre attaccato e osteggiato questa parte dell'esercito per questi motivi.
Ora, ad ora, ci si ritrova con 754 militari in manette, tra cui 29 colonnelli e 5 generali sollevati dall'incarico, ci si ritrova a contare altri morti, pare 42 ad Ankara e 16 "golpisti" non si è capito dove, ci si ritrova con l'ipocrisia Obama-Merkel, davvero immonda, ci si ritroverà con il libero aumento delle navi Nato nel Mediterraneo, non già in aiuto o a regolarizzare il flusso dei poveri migranti, ma ad aiutare gli scafisti assassini e il governo turco continuerà il suo doppio gioco. Immondo anch'esso come sopra. 
E si riaffaccia la domanda: fino a quando tutto questo potrà continuare? E un golpe si fa speranza. Paradossalmente.
Marika Guerrini

venerdì 8 luglio 2016

Dāccā: svadēśī, una pagina di storia


...  la storia non giustifica ma spesso chiarifica il presente, questo il motivo della pagina che sta per articolarsi sull’India agli albori del XX secolo, momento  in cui l’emergere della coscienza nazionale, sorta nel secolo precedente quale prodotto delle reazioni al consolidarsi del potere britannico, prese sempre più corpo. Nei primi anni del ‘900 non vi fu indiano, qualunque fosse la religione, la casta, la provenienza regionale, che non si rendesse conto del carattere “straniero” dei ib cristiani che governavano la loro terra, bastava che per un motivo o per l’altro venisse a contatto con i dominatori.
Eppure l’India aveva visto in passato altre invasioni, vedi gli Arii, vedi i Moghul, ma sempre, dopo il primo momento, s’era verificato incontro, scambio, e imperi “indiani” erano sorti. I britannici invece comandavano e controllavano il paese con il proprio rāja distante migliaia e migliaia di chilometri, senza tener in alcun conto quella che era stata ed era la ricca tradizione culturale, sottovalutandola quando non denigrandola in ogni campo dal religioso, al politico, al giuridico, all’economico, sostituendo l’intero assetto sociale del paese con un processo di unificazione e “modernizzazione” prettamente britannico, diffuso in maniera capillare dai missionari così come dall’istituzione del sistema scolastico di stampo inglese e dall’apertura al commercio privato con lo straniero, che, accanto alle già esistenti diversificazioni di casta, aveva creato ulteriore discriminazione sociale il cui fine agevolava gli interessi economici britannici accrescendone il profitto.
Questa situazione, caratterizzata dalla grande capacità inglese di sublimare interessi e identità personali a leggi “impersonali” atte a perseguire “più alti” fini di utilità nazionale, intendendo per nazionale l’isola atlantica ed il suo impero, fece sì che progredisse sempre più la coscienza nazionale indiana di cui sopra. Gli indiani presero consapevolezza di quanto distanti fossero i funzionari governativi britannici dalle loro peculiarità culturali, sociali, economiche e politiche. Così, mentre vicerè inglesi si avvicendavano senza nulla cambiare al loro governare, il primo grande Movimento Nazionalista Indiano sorto il secolo precedente, prese a figliare. I movimenti che originò furono moltissimi, non vi fu regione che non ne avesse almeno uno. Da principio le espressioni dei movimenti nazionalisti tentarono di stabilire un dialogo con il governo straniero, puntando come era stato in passato su un incontro di scambio culturale. Centinaia furono le riviste di cultura pubblicate in quegli anni  atte a sottolineare attraverso istituzioni moderne la loro diversità tradizionale, molte furono le personalità intellettuali che si adoprarono a che l’incontro con gli inglesi si verificasse malgrado lo scalpitio giovanile propendesse per le insurrezioni armate. La politica britannica non solo non concesse nulla ma, nella paura di perdere il potere acquisito, alle manifestazioni pacifiche rispose con repressioni e violenze d’ogni tipo, dalla negazione di diritti sociali, politici, giuridici, alle violenze corporali.
La goccia che fece traboccare il vaso accendendo ancor più l’animo indiano fu la partizione dell’allora Bengala, vasta regione la cui pianura sul delta dei due fiumi sacri, la Ganga, per noi Gange, e il Brahmaputra, costituisce ora il Bangladesh.
Era l’ottobre del 1905 quando il vicerè George N.Curzon, decise di spartire la provincia del Bengala in due nuove, Bengala orientale e Assam, senza consultare tanto meno considerare l’opinione indiana. La divisione netta con una linea che tagliava la strada tra Calcutta e l’Hughli, affluente del Gange, portò anche ad una separazione tra la maggioranza indù dai sei milioni di musulmani, entrambi di lingua bengali, questi ultimi  vennero raggruppati  nell’Assam. L’azione fu commentata da un eminente esponente del nazionalismo indiano che, con sapienza e ragionevolezza, si era sempre speso a conquistare il cuore e la mente dei governanti e dei vicerè inglesi, a favore dei tanti appelli alla giustizia politica e all’equità, affinché gli indiani riformassero in prima persona le loro idee sociali e religiose e risolvessero i loro conflitti interni in vista di una indipendenza. Questo esponente era Gopal Krishna Gokhale (1866-1915), che così si espresse:
“ Hanno inflitto una crudele ingiustizia ai nostri fratelli del Bengala, l’intera regione è stata scossa, fin nel profondo, dal dolore e dal risentimento, come mai era accaduto prima d’ora. Lo schema della partizione architettato nelle tenebre e realizzato a dispetto di quella fierissima opposizione che da mezzo secolo a questa parte ha incontrato ogni misura governativa, rimarrà sempre come immagine esatta delle peggiori fattezze che sa assumere l’attuale sistema di gestione burocratica: il suo totale spregio per l’opinione pubblica, le sue arroganti pretese di possedere una saggezza superiore, il suo sordo disprezzo per i più schietti sentimenti della gente, la beffa del suo richiamarsi alla giustizia, la sfacciata preferenza accordata alle necessità del Service invece che a quelle dei sudditi.”
Il Bengala esplose. Si formò il movimento Svadēś, nostro paese. Al grido di Svadēśī, del nostro paese, con riferimento ai prodotti indiani, il boicottaggio alle importazioni inglesi emerse come punto chiave del programma politico del Congresso galvanizzando l’intera nazione. Falò di protesta illuminarono il cielo di Calcutta e il sacro rituale ario del sacrificio ad Agni, il Fuoco, prese a bruciare i sari fabbricati in Inghilterra e tutte le stoffe che provenissero dal Lancashire. E mentre i fuochi ardevano i prodotti inglesi, e lo sdegno cresceva, gli studenti delle università dal sistema di stampo inglese, con programmi corrispondenti, perseguitati e oppressi nelle loro tradizioni culturali, presero a concretizzare i sottili insegnamenti stranieri e quelli tra loro più esaltati si diedero al culto della bomba, cercando di ottenere con il terrore quel che era stato loro sottilmente negato attraverso l’istruzione e la formazione.  
Arabinda Ghosh, più tardi conosciuto come  śri Aurobindo, che da sempre considerava il suolo  dell’India alla stregua della Dea Madre che bisognava amare e difendere, colui che con la sua opera avrebbe onorato la propria terra e che allora le diede la poesia poi musicata da Rabindranath Tagore, che sarebbe divenuta il primo inno del nazionalismo indiano, ritenuto un terrorista, per salvarsi, fu costretto a fuggire dal suo Bengala. Era il 1910.  Rifugiatosi in Francia, śri Aurobindo, a Pondichéry avrebbe fondato poi il suo āśram ch’era il 1914.
Al grido di Svadēśī, argomenti un tempo moderati si trasformarono in manifestazioni di rabbia, in proteste furibonde in cui tutti si trovarono uniti, gli zamindār, proprietari terreni spesso appartenenti a famiglie reali, si unirono agli insegnanti, agli avvocati, ai negozianti, agli spremitori di olio, oltre ogni casta, indù e musulmani uniti nel movimento per l’indipendenza dal dominio straniero ivi compreso lo sfruttamento economico.
Si potrebbe continuare, raccontare aneddoti su aneddoti, continuare a chiarificare la tenebra di qualsivoglia indubbia atrocità, al di là di qualsivoglia sigla vera, falsa o opportunistica che sia. Si potrebbe raccontare anche un aneddoto recente come quello di Dāccā nell’aprile del 2013, quello del palazzo di otto piani che si incendia, che si sbriciola per assenza di adeguate misure di sicurezza, che uccide 381 lavoratori bangladeshi, che producevano capi di abbigliamento per multinazionali occidentali. Potremmo raccontare che l’italiana United Colors of Benetton, ne faceva parte benché abbia negato l’evidenza, ma ci fermiamo qui.
Quella narrata in questa pagina è solo una breve scomoda pagina di storia che sposa un’attualità altrettanto scomoda in cui il Bangladesh cresce del 6% all’anno senza che oltre il 90% dei bangladeshi se ne accorga continuando pertanto ad emigrare. E li vediamo qui a venderci rose, a volte farcene omaggio, a pulire i finestrini delle nostre auto, a ....
Quel che accadeva nell’India coloniale accade ancora in Bangladesh, e non solo, la selvaggia economia internazionale, con la sua selvaggia globalizzazione, con le sue selvagge regole internazionali anch'esse, procura danni che fanno esplodere la violenza il cui nome non ha importanza, mentre il terrorismo così detto islamico continua ad essere un’arma usata con competenza dopo aver disintegrato gli stati laici, regionali più o meno, che non avrebbero permesso la sua ascesa forse neppure la sua formazione.
Marika Guerrini