giovedì 9 novembre 2017

La voce persa dell’anima mentre tutto continua


…“Gli Stati Uniti devono lasciare il Paese” parole di  Ismail Khan pronunciate ad Herāt martedì 31 ottobre, poco più di una settimana fa, giunte a noi oggi, ora. Parole che non lasciano dubbio, seguite da: “In Afghanistan ci può essere pace e sicurezza solo con un Governo sostenuto dal popolo e scelto per elezioni o da una Lloya Girga (Consiglio Nazionale)” e ancora ” L’Afghanistan non può essere affidato a militari stranieri… La Libertà, l’Indipendenza e la Religione sono nel sangue del nostro popolo”. Ha parlato poi dell’alto grado di corruzione nel Governo, dell’inettitudine.  In risposta, a distanza di due giorni, Rex Tillerson, in una visita improvvisata a Kābul, ribadendo l’impegno americano nel Paese si è complimentato con il Governo per essersi fatto “più vibrante”, benché non abbia negato la corruzione, né avrebbe potuto data la valutazione del Transparency International che, in un sondaggio, attribuisce alla corruzione dell’attuale Governo afghano il 96% di presenza rispetto al sistema internazionale. A completare la risposta, a distanza di quattro giorni, ieri, la Nato rafforza di 3.000 uomini il contingente militare in Afghanistan.
Chi sia Tillerson lo si sa, Segretario di Stato americano, cosa sia la Nato neanche a dirlo, chi sia Ismail Khan lo sanno solo gli afghani. 
Ismail Khan, denominato dai locali il “Leone di Herāt” alla stregua del ben più noto “Leone del Panjshir” Ahmad Shah Massoud ucciso per la libertà, parla a ragion veduta, non tanto per essere stato Ministro dell’Energia Elettrica e dell’Acqua sotto il Governo di Hamid Karzai che, malgrado la corruzione, tra l’altro endemica specie tra l’etnia pashtun, aveva comunque una linea guida, cosa che rese poi Karzai inviso agli americani sì da procurarne in maniera infida, come da prassi, la caduta, conosciuto e stimato neppure, Ismail Khan, per il ruolo di Governatore della provincia di Herāt che ha coperto, non per le molte cariche anch’esse affidategli in passato, né per i molti ruoli chiave, quanto per essere stato uno di quei comandanti mujaheddin che hanno fatto la storia afghana contemporanea, combattendo negli anni ’80 i Sovietici fino a cacciarli e, negli anni ’90, i primi Taliban, quelli costruiti direttamente da Washington nelle madrasse pakistane. Non a caso infatti Ismail Khan ha anche detto: “Una delle cose che gli americani e l’attuale Governo hanno fatto è stata tenere i mujaheddin fuori dal potere governativo” e ancora, al timore espresso da alcuni circa il ritiro completo delle forze straniere che, secondo loro e a torto, lascerebbero il fianco ai Taliban: ”I mujaheddin potrebbero coprire  il ruolo delle truppe straniere” e ancora: “I Taliban dovrebbero far parte del Governo così come ci dovrebbe essere la rappresentanza di tutti i gruppi etnici e delle varie fazioni politiche”. Poi ha concluso: “ Quando l’Unione Sovietica invase il Paese, nessuno pensava di poter superare la loro forza bruta, ma con l’aiuto di Dio ce l’abbiamo fatta” e ancora:” Chi avrebbe pensato che l’Europa orientale sarebbe stata libera dai Sovietici, eppure dopo 70 anni ha ottenuto la libertà. Abbiamo quindi la speranza di poter superare  anche i nostri problemi”. Ed ecco affacciarsi la speranza, quest’ultima dea che ancora e malgrado aleggia tra quelle genti.
Sì, i loro problemi, i problemi da tempo costruiti e alimentati dai nostri problemi ché altro fulcro non v’è allo sfacelo globale. Che si manifesti in guerra, in povertà economica, che si manifesti sui volti scarni dei bambini fotografati dalle Onlus, quelli che in cornice video entrano nelle nostre case, in modo che, per dirla in gergo, ci si possa mettere l’animo in pace con nove euro al mese, o giù di lì. I nostri ipocriti Aiuti Umanitari a coprire la nostra povertà di valori che i nostri giovani d’occidente ci mostrano in ogni nostro giorno con i loro disagi, i disagi che fanno cronaca drammatica, spesso, quando non tragica, i disagi su cui interveniamo con la psicologia anziché prevenirli con la ripresa dei valori etici, morali, con la ripresa d'un reale rispetto  per l’infanzia, perché è lì che si creano i futuri drammi, le tragedie future. I disagi su cui interveniamo con i dibattiti televisivi a fare audience, su cui guadagniamo. Mentre tutto continua.
In questo tutto che continua, il cuore è, a volerlo scorgere, in una palese diversità: in questi paesi da noi martoriati, annientati, a cui ancora una volta occiriente, sì che Giovanni nel deserto, dà voce, questi paesi di cui abbiamo distrutto la storia delle cose e degli uomini, questi paesi che si è costretti a lasciarsi alle spalle per raggiungere lidi d’un occidente al tramonto, in questi paesi, i figli, sono ancora capaci di morire per un ideale di libertà. E lo fanno ovunque, dentro e fuori dai confini, in terra lontana, sconosciuta, che mai conosceranno. Che mai li riconoscerà. Li ricorderà. Morire perché la libertà scorre nel loro sangue, come dice Ismail Khan. Ma noi non ascoltiamo. Non sappiamo. Non vogliamo.
La guerra in realtà è nostra, la guerra che non riusciamo a vincere è in noi stessi perché abbiamo perso la libertà, il suo vero senso. Quello intriso di sacralità. Persa insieme alla voce dell’anima. La sua voce.
Mentre tutto continua.

Marika Guerrini
immagine: Barat Alì Batoor (coll. privata)

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